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A.Manetta: le t-shirt stampate dai detenuti del carcere

12/05/2023
Christina Chiofalo
Pubblicato in: ,

Probabilmente quando inizierai a leggere questo articolo, quando leggerai che sto per raccontare di una start-up artigiana che come protagonisti ha dei carcerati, sarai scettica oppure curiosa. Forse ti chiederai: perché dovrebbe interessarmi un progetto che aiuta a rimettere in carreggiata dei delinquenti?

Durante una fiera motociclistica mi sono fermata davanti ad una bancarella piena di magliette colorate con diversi disegni a tema moto, ed al posto delle due ruote c’erano delle manette. Me ne ha spiegato il senso Matteo, garante nel carcere di Novara e fondatore del progetto A.MANETTA. Per lui è fondamentale raccontare in cosa consistono queste t-shirt, perché tanti sono inizialmente attratti dai disegni o dal gioco di parole senza capire che dietro alle stampe c’è il carcere.
Matteo non vuole che sia solo una semplice maglietta che piace indossare, ma desidera che venga colto il significato del progetto, ed io non avrei mai immaginato quanto fosse importante il messaggio che cerca di trasmettere.

A.MANETTA è un laboratorio di stampa su tessuto, attivo all’interno della casa circondariale di Novara, ovvero il carcere. Al tempo stesso è un piccolo brand, ispirato alla libertà delle due ruote. Ma si possono personalizzare magliette anche su richiesta. Oltre questo possiamo considerarlo anche un esperimento di economia carceraria. Esperimento perché è nato senza sapere di poter stare in piedi, ed economia carceraria perché tramite il guadagno delle vendite si paga uno stipendio al detenuto che le stampa, con l’obiettivo di reinserirlo nella società.

Come e perché nasce l’idea?

Tutto inizia circa cinque anni fa quando Matteo faceva il garante nel carcere di Busto Arsizio dove in un primo momento era un volontario. Finché aveva questo ruolo gestiva un gruppetto di dieci detenuti che avevano delle cose da fare, un percorso con un obiettivo ben chiaro a tutti.
Matteo racconta:

“Quando poi sono diventato garante ed ho avuto 400 carcerati in gestione, mi sono reso conto che almeno 350 di loro non avevano nulla da fare. Ed al di là di tutto (parliamo dei problemi che ci sono in carcere, del sovraffollamento, della violenza) il mio unico dubbio era: una persona che sta rinchiusa senza far nulla tutto il giorno, come ne può uscire migliore? E quindi il pensiero è stato: bisogna portare qui dentro del lavoro o dei laboratori, anche non retribuiti, per occupare il tempo a queste persone.”

In una Repubblica fondata sul lavoro, ho pensato che il lavoro fosse la migliore risposta.”

La parte del garante era portare un’attività, ma l’esempio di Matteo doveva essere l’assunzione.

 “Inizialmente avevo pensato di far creare delle borse da moto, perché conoscevo una cooperativa che produceva borse per donna e poteva quindi essermi di supporto. Gli dissi che il mio obiettivo era assumere un carcerato e pagargli un vero stipendio. Ma loro rifiutarono la proposta perché pensavano fosse troppo rischioso e costoso. Raccontando un giorno del mio progetto ad un amico motociclista, colui che produce le pellicole che noi oggi usiamo, mi propose l’idea di stampare delle magliette. Pur non essendo il mio settore, ho provato a disegnare qualcosa a tema moto con l’inserimento delle manette. Questo dettaglio per me era vincolante perché doveva essere veicolato il messaggio. Trascorso un periodo, questo mio amico mi contatta dicendomi che mi preparavano una bancarella ad un evento per le due ruote, e che potevo già partecipare con le prime magliette. Così dopo aver chiesto al carcere di Busto Arsizio se potevo presentare il tutto come progetto pensato per il carcere e formalizzare la cosa, ho dato il via al mio “esperimento”. Mi sono quindi organizzato, ho acquistato delle magliette, ho contattato due ragazzi appena scarcerati ed ho iniziato a stampare e produrre le prime t-shirt. Andarono a ruba quel giorno all’evento! Ed al di là del denaro incassato, avevamo ricevuto tanti sorrisi e complimenti che mi incoraggiarono a portare avanti il mio obiettivo. Da lì abbiamo parlato con molte persone e tramite conoscenze abbiamo poi ricevuto altri inviti ad eventi per motociclisti, tra cui la HARDALPITOUR HAT Sanremo Sestriere, il TheReunion, la fiera MotorBikeExpo a Verona, ed ho così capito che la cosa poteva stare in piedi.
Per me era importante questo, perché non volevo portare una speranza e poi toglierla. Nel 2019 mi ha contattato il carcere di Novara interessato al progetto, dicendomi che avevano già pronto un laboratorio e cinque ragazzi da mettere in prova. Seppur scettico, ho immediatamente accettato. Per me era fondamentale che il lavoro fosse svolto nel carcere, far arrivare la voce che in carcere si poteva lavorare. Dei cinque ragazzi in prova dopo poco tempo abbiamo impiegato il primo detenuto. Ad oggi sono due i dipendenti assunti ed abbiamo uno stagista che ogni tre mesi cambiamo, per fare lavorare un po’ tutti e così dare dei soldi in diverse celle. Sono soldi che gli servono per comprare degli extra che non vengono forniti (come le sigarette, il giornale oppure dei biscotti). Oltre ad avergli trovato un qualcosa da fare, ho voluto assumere, perché trovo che poter dare dei soldi ai detenuti tramite un lavoro che devono svolgere sia utile per loro. Perché sono soldi guadagnati e non sono soldi arrivati per beneficenza oppure che glieli hanno versato i famigliari. È un modo per fargli capire che i soldi arrivano solamente se si lavora. “

A.Manetta

Qual è il messaggio che attraverso A.MANETTA vorresti dare?

Non voglio dare alcun messaggio in realtà. Il mio è solamente un pensiero che ho preso sul serio. Mi sono detto: qui mancano le cose da fare. Manca il modo per far passere il tempo a delle persone che se le lasci in un angolo si riempiono di paranoie e ci diventano matte, oppure vengono raggiunte da criminali peggio di loro e fanno scuola di criminalità. Quindi vorrei dargli degli strumenti per pensare in maniera costruttiva sullo star dentro.
In galera non esiste Netflix, non esiste cellulare, non esiste contatto fisico, non hai nulla a cui pensare di concreto. Ascolti solo i vicini di cella che piangono oppure urlano. Se invece hai qualcosa da fare, almeno per quelle ore che sei impegnato inizi a far andare la testa e ragionare. Impari che puoi guadagnare soldi lavorando, un’opzione che prima non avevi mai considerato in vita tua perché magari li hai sempre guadagnati solo spacciando della droga. L’idea di portare del lavoro in carcere può anche tornargli utile una volta dimesso, perché ha comunque imparato un mestiere.

C’è il pregiudizio sulle persone recluse che “se sono dentro, qualcosa hanno fatto e se lo meritano”. Certo, se pensi al criminale che leggi sul giornale, al mostro in prima pagina che stupra le donne, che uccide oppure rapina le banche, è ovvio che credi che il carcere ne sia pieno. Ma la realtà è che in galera è pieno di persone con condanne per spaccio oppure per piccoli furti. Molti di loro hanno commesso reati a volte quasi ridicoli, da persone poco furbe oppure disperate, tossicodipendenti. In generale si pensa sempre al carcere come l’ergastolo, ma il problema è che tanta gente invece è lì dentro solo per qualche anno e poi esce. E quindi come voglio che esca quella persona? Voglio che abbia imparato qualcosa? Voglio che esca sentendosi una persona pronta a riiniziare una vita nuova, oppure voglio che finisca nuovamente in carcere peggio di prima? Perché molti di loro purtroppo in carcere ci ritornano.

“Sono convinto che portare del lavoro in carcere, sia anche sicurezza sociale.”

Penso che se la gente in carcere ha imparato che si può lavorare, se ha imparato a rispettare delle regole, esce da lì che è pronta alla vita reale. È una persona che pur essendo stato un detenuto, quando è fuori e cerca un impiego può dire che durante la reclusione ha svolto del lavoro, non ha dato problemi ed ha percepito uno stipendio, una busta paga, si ritrova dei contributi per la pensione. Esce praticamente una persona che è già un po’ più inserita nella società, rispetto ad un altro che buttano fuori e non ha fatto nulla per anni. Per lo meno è quello che spero, perché poi ci sono alcuni che purtroppo sono criminali di suo e lì c’è poco da fare.

Perché questo progetto pensi possa piacere a noi motociclisti?

Anch’io sono motociclista, e noi motociclisti sappiamo bene cosa significa essere liberi. Se uno è di strada e conosce la sensazione di libertà, sa e capisce quanto possa essere mancata ad uno che per colpe gravi oppure sciocche è stato rinchiuso per anni. E poi è un modo per essere solidali con delle persone che stanno in un posto orrendo, per noi inimmaginabile. In un certo senso è anche per fare un piccolo tassello di sicurezza, cioè creare l’occasione ad una persona più o meno criminale, di essere sempre meno criminale quando esce. Anziché esserlo di più, cosa che purtroppo in alcuni casi accade.

Come ti è venuto in mente il nome A.MANETTA?

Mi era subito stato chiaro che volevo usare disegni a tema due ruote ed il nome “a manetta”. Mi piaceva sia per il gioco di parole, ma soprattutto perché non ha a che fare solo con la velocità, ma rappresenta anche l’intensità. È un termine che nel gergo spesso si usa per esprimere quanto ti piace una cosa, ad esempio puoi mettere la musica a manetta alzando il volume oppure ti piace mangiare a manetta. Quindi per me è la definizione dell’intensità con cui fai una cosa, in cui credi in una cosa. Tanto quanto deve crederci il detenuto nel suo reinserimento. Mentre le due ruote volevo metterle perché sono sinonimo della libertà, e perché l’equilibrio instabile delle due ruote è lo stesso equilibrio instabile di chi è dentro e deve rimettersi dritto. Se non pedala o non tiene aperto, va per terra.

Ultima curiosità: perché in alcuni tuoi disegni oltre alle manette, troviamo il numero 27?

La Costituzione – Articolo 27, spiega il senso della pena e dice a chiare lettere che una persona non va in carcere per essere punito ma per essere reinserito.

Dopo aver parlato con Matteo mi è stato chiaro, che spesso etichettiamo le persone senza conoscerle. Giudichiamo delle realtà che non sono le nostre, come appunto una persona che è stata in carcere per la gente rimarrà sempre un galeotto. Ma se esci di casa e ti confronti con le persone, se pensi a quelle che hai conosciuto (magari anche viaggiando nel mondo), i pregiudizi saranno sempre meno. È stato interessante ascoltare le diverse storie di alcuni detenuti e dei loro giorni passati in cella, ed alcune mi hanno anche emozionata. Immagino la scena di un padre degno di essere di nuovo libero, che passeggia con suo figlio tenendolo per mano; e che vedendo in giro una persona con indosso la t-shirt, ne diventa fiero e con le lacrime negli occhi ed un nodo alla gola gli dice al figlio: “Quella l’ha stampata papà mentre era in carcere!” Molti di loro non sono mostri, sono persone che hanno commesso errori, ma che hanno dei sentimenti e che meritano una seconda possibilità. Per questo motivo MissBiker ha scelto di collaborare e supportare il progetto con la t-shirt personalizzata a.manetta in edizione limitata.  Christina Chiofalo ph. A.Manetta

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