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Mirjam Pol: “La Dakar è uno sport di squadra al 100%”

15/12/2023
Lisa Cavalli
Pubblicato in: ,

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Mirjam Pol ha debuttato all’età di 22 anni come prima pilota di moto olandese al Rally Dakar nel 2006.
Per tre volte ha vinto la classifica femminile di questa iconica competizione che ha concluso 9 volte diventando l’unica donna ad aver gareggiato nella Dakar in tre continenti.
Nel 2021 e 2022 è diventata campionessa mondiale Baja Women e sempre nel 2022 ha vinto il campionato Rally-Raid Women.

Oggi sei una campionessa conosciuta e rispettata, come è iniziata la tua avventura nel mondo delle moto?

Ho avuto l’inizio migliore che si possa immaginare, sono cresciuta in mezzo e in sella a tutti i tipi di motociclette. Ho iniziato a correre nel motocross all’età di 4 anni. Mio padre era un pilota di sidecar, sei volte campione nazionale di grasstrack e pilota internazionale di motocross. Mio fratello maggiore è campione olandese di enduro e vice campione di motocross. Naturalmente, mia madre è sempre stata presente per aiutare e sostenere, come in molte altre ‘famiglie motociclistiche’. Quindi, si può dire che per noi era una “cosa di famiglia”.

Hai avuto il supporto della tua famiglia quando hai scelto questa carriera sportiva?

Non so esattamente cosa intendi per “carriera” perché non la vedo come una carriera. Se lo fosse guadagnerei soldi e correre nella Dakar costa. Quindi, lo vedo più come un hobby/sport che consuma tutto (tempo, sforzo, soldi) e che nasce dalla pura passione. Vorrei poter vivere di questo! Ma lo amo comunque. E sì, ho avuto – e ho ancora – molto sostegno dalla mia famiglia. Ma non solo dalla mia famiglia, anche da amici e sponsor. La Dakar non è qualcosa che puoi fare da sola, ovviamente durante la gara di giorno sono sola sulla moto, ma al di là di questo è uno sport di squadra al 100%.

Come vivi le tue esperienze in moto? Usi le moto solo per le gare o anche nel tempo libero?

Onestamente, non sono proprio interessata alle moto al di fuori delle competizioni. Mi piace solo gareggiare! Non sono nemmeno interessata al lato tecnico. Imparo solo ciò che devo sapere nel caso in cui la mia moto non voglia partire o si rompa durante il giorno. Nella Dakar è meglio essere una brava “MacGyver” piuttosto che una grande meccanica. Perché non hai pezzi di ricambio con te sulla pista e l’assistenza non può entrare in pista per aiutarti. Quindi, è fantastico se sai come riparare il motore a occhi chiusi, ma non sei brava senza i pezzi necessari. Nelle corse rally, “nastro adesivo, fascette e filo di ferro” sono le parole magiche. Non importa come ripari le cose, a patto che le ripari!

Non possiedo né guido una moto “normale” per correre su strada. Non c’è sfida per me lì. E sicuramente nessun divertimento… Non mi sento sicura su una moto nel traffico. Sono olandese e il mio paese non è proprio ‘motociclistico’. Le persone per strada non sono abituate ai motociclisti, quindi credo che sia davvero rischioso guidare una moto nel traffico. Credo che ci sia più rischio qui nel traffico che nel rally Dakar. So che suona strano. Ma alla Dakar siamo tutti professionisti, ben allenati e andiamo nella stessa direzione (se non ci si perde).

Quindi, uso le mie moto solo per gare e allenamenti. È tutto ciò di cui ho bisogno. Mi piace la competizione, mi piacciono le sfide, mi piacciono le persone con la stessa mentalità sia in pista che fuori. Non importa quanto possiamo essere diversi, parliamo tutti la stessa lingua perché condividiamo la stessa passione.

Mirjam Pol

Alcune pilote in molte discipline ci hanno detto che competere contro gli uomini alza il livello e che non ci sono differenze quando si indossa un casco. Per altre, è più giusto competere tra donne, specialmente a causa delle diverse caratteristiche fisiche. Qual è la tua opinione?

Entrambe le correnti di pensiero sono corrette. E penso che la differenza di pensiero sia creata dal livello in cui si compete e se si è attivi nella competizione o meno. È un fatto noto che impariamo di più gareggiando contro gli uomini e sicuramente questo alza il livello. Ad esempio, quando si inizia giovani e si gareggia contro ragazzi, si impara come “contrastare”. In generale, quando sono solo donne a gareggiare, siamo un po’ più “gentili” durante la gara.

Ma è troppo facile dire che non ci sono differenze quando si indossa un casco. Prima di tutto, lasciatemi dire, ho una formazione e dei diplomi in educazione fisica e fitness. Quindi, quando si tratta di uomini e donne, siamo diversi, in molti modi; anatomici, fisiologici, psicologici, ecc. È un fatto che non siamo forti come gli uomini ed è anche un fatto che uomini e donne sono “cablati” diversamente nel cervello.

Ma questo non deve significare che non possiamo battere gli uomini. Credo che in situazioni complesse come le gare rally, dove non si tratta solo di “forza fisica”, abbiamo persino un piccolo vantaggio. Sappiamo di essere fisicamente più deboli e, riconoscendolo, troviamo altri modi per compensare con altri punti di forza che abbiamo e possiamo controllare. In qualche modo “impariamo” a gareggiare in modo più intelligente ed economico.

E non dimenticate il vantaggio della forza psicologica che abbiamo essendo “svantaggiate”. E avete idea di quante volte siamo sottovalutate dagli uomini? Tutte cose che possiamo usare a nostro vantaggio. Mai sottovalutarci!

Quest’anno hai partecipato anche a una gara di Coppa del Mondo Bajas in Qatar, finendo al primo posto tra i quattro partecipanti. Perché pensi che ci siano così poche donne nel Campionato del Mondo Rally Raid? Qual è la soluzione, secondo te, per aumentare l’interesse delle donne e degli sponsor?

Questa domanda è molto più complessa di quanto probabilmente immagini, ma proverò a risponderti.

Prima di tutto, sì, mi sono classificata prima nella classe femminile in Qatar, ma quella è la seconda classifica per importanza. Ho finito anche terza assoluta, che per me personalmente è un risultato più significativo. Se è una gara di Campionato del Mondo, controllo prima la classifica generale della 450. Questa è la classifica che mi dà una visione corretta della mia gara. Alcuni degli uomini nella classe 450 sono sempre lì in tutte le gare. Quindi, se sei normalmente davanti o appena dietro uno di loro, sai se hai fatto una buona gara o no. Nella classe femminile siamo solo in poche e solo alcune di loro hanno il budget per gareggiare in più gare.

Quindi, la maggior parte di noi, me compresa, scegliamo le nostre gare in base al budget. Ciò significa anche che in molti casi gareggiamo solo una o due volte all’anno l’una contro l’altra. È possibile che gareggiamo nella stessa competizione e non ci incontriamo mai. Ad esempio, posso scegliere di gareggiare in Qatar, Portogallo e Ungheria e qualcun’altra sceglie di gareggiare a Dubai, in Arabia Saudita e in Spagna. Possiamo avere una grande differenza nel livello di guida, non incontrarci mai e finire con gli stessi punti in classifica.

Ora veniamo alle soluzioni per aumentare la presenza delle donne nel Rally Raid e gli sponsor.

Per quanto riguarda la prima parte, non lo vedo come un problema insormontabile che richiede una soluzione immediata. Tranquille, stiamo procedendo, ci vuole solo tempo… Come molte altre cose nella vita, le cose buone richiedono tempo, è un processo e progredisce lentamente. Ovviamente possiamo aiutare il processo e accelerarlo un po’ “facendoci vedere”. Uscire e mostrarci alle giovani “future pilote”, non avere paura, l’abbiamo già fatto, siamo già qui, anche tu puoi farlo. Personalmente credo che le ragazze più giovani che vogliono davvero gareggiare troveranno il loro modo, con o senza “il nostro” aiuto.

Poi il problema più grande… gli sponsor. Vorrei avere una soluzione per questo, ma non ce l’ho. Ed è un problema per tutti gli amateur, sia uomini che donne. Purtroppo, scegliamo uno sport costoso. Per me personalmente, è la sfida più grande ogni anno, trovare un budget… Se trovate una soluzione, fatemelo sapere!

Il rally Dakar è la competizione più famosa al mondo, ma non ti vedremo alla linea di partenza quest’anno. Deve essere stata una decisione molto difficile per te.

Sì, sfortunatamente non sarò alla partenza del rally Dakar in Arabia Saudita il prossimo gennaio. Mi dispiace per questa scelta, anche se è una scelta che ho fatto da sola.

All’inizio di quest’anno ho preso il Covid. Inizialmente, sembrava che avessi una ripresa abbastanza normale. Purtroppo, questa ripresa si è fermata dopo un po’. Per lungo tempo ho pensato che i sintomi sarebbero svaniti e che avrei avuto ancora abbastanza tempo per riprendermi.

Ma i mesi sono passati e alla fine di ottobre ho raggiunto il punto in cui dovevo prendere una decisione. Andare alla Dakar o no… con il cuore dicevo “sì, vai” senza alcuna esitazione. Ma la mia mente diceva; “no!!! Non è sicuro!! Non sei in condizioni di gareggiare!” E sapevo che la mia mente aveva ragione, semplicemente non potevo, o non volevo, crederci. Ma, se sono anche solo un po’ onesta con me stessa, non è stata affatto una scelta, era semplicemente consapevolezza che non avrebbe funzionato.

Per come la vedo io, noi motociclisti siamo specialisti nella “gestione del rischio”. La sfida per noi è guidare il più velocemente possibile senza cadere. E ciò significa guidare al limite delle proprie capacità. In un secondo dobbiamo decidere, aprire o chiudere il gas? Girare o no? Frenare o non frenare? Guardare o non guardare il roadbook in quel preciso momento. La mia moto può farcela? Una cattiva decisione e sei a terra.

E c’è tutto un processo precedente a questo. Elimino la maggior parte dei rischi nella mia preparazione prima della Dakar. Arrivando ben preparata alla partenza, con una buona moto, una buona squadra e in buona forma fisica.

E i rischi rimanenti sono i cosiddetti “rischi del mestiere”, che accetto come pilota motociclista. Ma tutta questa situazione è completamente diversa. Non sono in forma, non ho i riflessi e questo non cambierà prima dell’inizio della Dakar. E in ogni caso, viene sempre prima la sicurezza.

Mirjam Pol

Durante il rally Dakar, nelle tappe lunghe, come vivi quelle ore interminabili sulla moto? Puoi distrarti? Quali sono i tuoi pensieri più frequenti?

Non ho bisogno di distrarmi durante le lunghe sezioni di strada. Prima della speciale, mi concentro e ripasso mentalmente la tappa della giornata. Quanti chilometri abbiamo oggi? Quanti chilometri di sezione rocciosa? Quanti chilometri di dune? Cosa fare con il rifornimento? Come affrontare la speciale oggi? Quali altri piloti sono appena davanti o dietro di me? Cosa fare con la previsione meteorologica/abbigliamento. E così via.

Dopo la speciale cerco di elaborare tutto ciò che è successo durante la giornata e faccio passare nuovamente la gara nella mia mente. Inizio analizzando tutto ciò che è successo durante la giornata. Dopo di che, inizio a preparare la mia intervista in inglese (così non sto a cercare le parole giuste tutto il tempo!) e dopo vado avanti con “cosa c’è in programma per domani”. Inizio anche a preparare il mio arrivo al bivacco. A che ora mi aspetto di arrivare al bivacco? Posso fare una doccia e mangiare prima del briefing? Devo preparare qualcosa di speciale per domani? A che ora devo alzarmi domani mattina? E così via. Come puoi vedere, c’è sempre qualcosa che mi passa per la testa, quindi non ho bisogno di una distrazione. Sto passando direttamente da una tappa alla successiva.

Le uniche due cose che possono essere davvero una sfida sulle lunghe, lunghissime sezioni di strada sono la stanchezza e gli infortuni. Queste possono rendere le sezioni di strada due volte più dure e lunghe.

Sei l’unica donna ad aver gareggiato alla Dakar in tre continenti: Africa, Sud America, Arabia Saudita. Quale edizione è stata la più difficile e quale ti ha emozionato di più?

Il mio primo rally Dakar in Africa nel 2006 è quello che mi ha emozionato di più. È stata sia la mia prima volta alla Dakar che la mia prima volta in Africa, quindi puoi immaginare l’enorme impatto che ha avuto su di me. Era un sogno che si avverava. Conoscevo il rally Dakar solo dalla televisione. E nessuno si aspettava che io lo portassi a termine, perché avevo solo 22 anni e nessuna esperienza nel Rally Raid. Il Dakar è stato il mio primo rally e sono riuscita a superare tutte le aspettative, comprese le mie.

Quasi ogni giorno arrivavo tra gli ultimi e quasi ogni giorno arrivavo al buio. Ma non ho mai mollato. Solo il 40% dei piloti ha raggiunto il traguardo quell’anno. Statisticamente è stata la Dakar più difficile in cui abbia mai gareggiato. Sono anche molto orgogliosa di poter dire di aver corso ‘la vecchia Dakar’ o “la vera Dakar”, come la chiamano oggi.

Una delle più difficili è stata la Dakar 2018 in Sud America. Durante la quarta tappa mi sono rotta l’avambraccio dopo 16,8 km. Mi sono alzata e ho capito subito che c’era qualcosa che non andava, ma riuscivo ancora a tenere la mano sul manubrio e continuare, così sono riuscita a terminare la speciale di 330 km di quella giornata. Un grande risultato, ma c’erano ancora altre 10 tappe tra me e la medaglia di arrivo… siamo riusciti a fissare il mio braccio in modo che potessi ancora tenere il manubrio ma anche ridurre un po’ il dolore. E così ho proseguito per altre 10 tappe, affrontandole una alla volta, usando la testa, rallentando il passo e gestendo il dolore. Sono arrivata al traguardo, ma non senza pagare il prezzo della Dakar (vedi foto qui sotto).

Mirjam Pol|Mirjam Pol|Mirjam Pol|Dakar 2018 - Mirjam Pol

E, ultima ma non meno importante, la Dakar 2020 in Arabia Saudita, che è stata molto difficile. Non fisicamente, ma mentalmente. In quella Dakar persi due amici. Nel Rally Raid siamo più o meno una grande famiglia. Prima il mio vecchio compagno di squadra Paulo Gonçalves cadde e morì durante la settima tappa. Ricordo di essere passata vicino alla scena a distanza, senza conoscere l’esatta situazione e senza poter vedere chi fosse a terra. Ma tutto sembrava brutto fin da subito; l’elicottero, lo staff dell’organizzazione, lo staff medico, gli altri piloti sul posto. Senza fermarmi e senza che nessuno mi dicesse nulla, sapevo già… Non che fosse Paulo a perdere la vita, ma che “uno di noi” aveva perso la vita. Dopo aver terminato la tappa all’arrivo al bivacco, la mia squadra mi informò della morte di Paulo.

È la cosa peggiore che possa succedere in una Dakar. E successe due volte quell’anno. Solo quattro giorni dopo il mio amico e connazionale Edwin Straver cadde e morì. Nel caso di Edwin, ero solo pochi posti dietro di lui, quindi quando arrivai alla scena mi fermai per vedere se potevo assistere qualche altro pilota già presente. Puoi immaginare lo shock mentre guardavo nel casco di Edwin e vedevo che era già “andato”. L’elicottero con lo staff medico arrivò rapidamente, prestò il primo soccorso per quel poco che si poteva fare e lo trasportò in ospedale, ma senza successo. Morì pochi giorni dopo.

Alla Dakar puoi realizzare i tuoi sogni più selvaggi e vivere i tuoi momenti entusiasmanti, ma può anche portarti ai tuoi abissi più profondi. La maggior parte delle volte parliamo delle nostre azioni e avventure “eroiche’, ma c’è anche il rovescio della medaglia. E tutti lo sappiamo… Corriamo, cerchiamo i nostri limiti e cerchiamo di spingerli, cercando di trovare il nostro equilibrio tra andare più veloce possibile e non schiantarci. È una linea sottile sulla quale rimanere in bilico, e a volte va storta. Alla Dakar impari rapidamente che gioia e tristezza sono strettamente legate.

Quale consiglio ti senti di dare a una donna che vuole seguire le tue orme?

Se vuoi davvero qualcosa, prenditelo! Non lasciare che nessuno ti dica cosa puoi o non puoi fare. Tieni presente che è una grande battaglia arrivare alla Dakar. Probabilmente ti ci vorranno anni e anni di preparazione e allenamento, ma se lo desideri davvero, puoi arrivarci, purché tu sia determinata. E non temere di fallire. Credi in te stessa. In qualche momento, tutti falliscono in qualcosa. Se provi e fallisci, impari. Sai solo se puoi o non puoi fare qualcosa dopo averci provato.

E il segreto più grande della Dakar? Per gli amateur non importa quanto veloce o lenta tu sia, purché tu raggiunga il traguardo… In questo mondo c’è solo un piccolo gruppo selezionato di piloti che finisce la Dakar. È la medaglia di arrivo che conta. Quando partecipo a grandi eventi, le due domande più frequenti sono “wow, hai fatto la Dakar?” e la seconda è “sei arrivata al traguardo?”. Nessuno mi chiede la classifica, perché tutti sanno che finire la gara significa vincere.

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Foto cortesemente condivise da Mirjam Pol

Traduzione: Lisa Di Blas

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